20 febbraio – 31 marzo 2018
con un testo di Davide Ferri
Monocromi e figure
Quando lo incontro la prima volta Vincenzo Schillaci mi parla di Portafinestra a Collioure. È una curiosa coincidenza, perché proprio il giorno prima avevo letto un paio di pagine, sfogliando il libro di Alberto Boatto sui colori (Di tutti i colori, ed. Laterza), a proposito di quel dipinto di Matisse. In ogni caso: quel dipinto, eccentrico se si considera tutta la produzione di Matisse, le sue innumerevoli finestre, è una visione oscurata, negata, un nero profondo e luminoso incorniciato da una porzione di muro, di pavimento, dalle ante dai toni pastello. Portafinestra a Collioure Matisse non ha mai voluto esporlo: il 1914 è un anno nero e forse doveva sembrargli un richiamo troppo letterale a quello che gli stava accadendo attorno. Oppure questa letteralità aveva semplicemente a che fare col suo linguaggio, con la pittura: l’artista affermava in maniera inequivocabile l’impossibilità di continuare a considerare il dipinto come spazio coerente e organico di rappresentazione, come il luogo delle figure.
Portafinestra a Collioure è dunque un atto di negazione, e al contempo afferma un’altra presenza, quella del “quadro in sé, quella del “quadro come oggetto”, un dipinto che ripiega sulla sua materialità, che si ritira nella sua dimensione materiale, e spinge l’osservatore a guardare dentro e non attraverso, o tutt’al più a guardare dall’altra parte, a una ipotetica stanza al di qua della finestra. Per Vincenzo quel nero è invece spesso, prensile, permeabile, e contiene al suo interno tutte le figure che Matisse ha dipinto, nel corso degli anni, guardando fuori dalla finestra della sua casa studio con vista sul mare. Quel nero – diciamo – è un monocromo con figure.
La mostra di Vincenzo Schillaci nella sede milanese di Francesco Pantaleone si intitola Figures (?) e mi sembra abbia a che fare con questi pensieri sul dipinto di Matisse. E se non fosse per quel punto interrogativo (indizio di un rapporto problematico con la figura) direi che ciò che sto guardando in studio non ha niente a che vedere con quello che la mostra sembra preannunciare: figure. Chiedo di nuovo: Vincenzo mi racconta dei suoi quadri degli esordi, che erano figurativi (dipinti negli anni in cui viveva a Palermo, prima di trasferirsi a Berlino), della fine di quel periodo, ma di un desiderio inappagato, di una spinta verso la figurazione che non si è esaurita, come una pulsione inarrestabile e involontaria. Mi spiega che da qualche tempo questa pulsione verso la figura è entrata a far parte di un’altra esperienza. Che ha dovuto necessariamente rinchiuderla in un sistema di regole, di limiti e verifiche. La figurazione è anche, penso, un’esperienza astratta.
Dunque: i dipinti di Vincenzo Schillaci sono astratti, e più precisamente appaiono – per usare un’espressione che sento suonare un po’ obsoleta perché io stesso l’ho usata in altri testi – come dei “quasi monocromi”, cioè superfici più o meno uniformi (in questo “più o meno” c’è tutta la gamma di differenze che vorrei provare a descrivere) che vibrano, rilanciandosi reciprocamente, per le loro differenti qualità: ci sono superfici levigate e opache, luminose e riflettenti (in grado di mostrare il riflesso dello spettatore, l’ombra di qualcosa che sta al di qua del quadro), superfici vibratili e movimentate, cioè percorse da macchie e segni che paiono attraversarle sottopelle.
I dipinti hanno anche qualcosa che corre lungo il margine: è la traccia di una stratificazione, l’indizio di una storia interna al dipinto, che l’artista evidenzia anche attraverso aree o porzioni di superficie, per lo più rettangolari, che appaiono come strappi, o finestre/aperture verso l’interno, verso un sotto in cui è avvenuto qualcosa: una specie di battaglia, di combattimento con l’immagine, un’immagine che non si dispiega sulla superficie, ma dentro al quadro, nelle sue pieghe materiali. Un’immagine nascosta, o abortita, che può emergere per vaghi cenni, o come essudazione, sulla superficie. E ancora: i dipinti di Schillaci sono fatti a strati, di toni diversi e “sovrapposti uno all’altro, ritmicamente”, costituiti da pigmenti, tempere, spray e schermati da un impasto composto da polvere di calce e cristalli di marmo, materiali che impongono all’artista un ritmo veloce di scrittura. Uno strato è una pagina bianca, lo spazio su cui proiettare un’immagine che può delinearsi per via di pennellate e tratti rapidi, sincopati, riconducibili al reale o semplicemente “asignificanti e di sensazione” (G. Deleuze). Dunque, ogni campitura copre, nasconde, cancella, ma al contempo trattiene qualcosa delle pennellate e dei segni che l’hanno preceduta. E nuovamente rilancia, per l’artista, la possibilità di un’immagine che può dispiegarsi per via di tentativi, slanci, esitazioni, fallimenti e cadute.
Ogni strato è così un atto di negazione e la possibilità di una nuova affermazione, un segmento del percorso di un’immagine che esiste, a ogni strato, come possibilità e irrisolto, o, strato dopo strato, come storia interna al dipinto. La stratificazione, man mano che progredisce, dona al dipinto uno spessore, una specie di autonomia, uno statuto di cosa altra rispetto all’artista, invitandolo a rinegoziare e ridefinire le sue intenzioni, fino a che è il dipinto stesso a dirgli quando il percorso dell’immagine, quell’immagine che si è composta “dentro” e di cui sulla superficie ci sono solo degli indizi, è terminato, esaurito. Vincenzo mi parla di quel momento come di una specie di resa, inevitabile. E appoggiando la mano sulla superficie di uno dei suoi lavori mi dice, sorridendo, che i suoi dipinti sono freddi al tatto, molto freddi. Che finiscono per diventare, in qualche modo, presenze estranee.