Scalene
Chantal Criniti | Marta Ferro | Alessandra Tudisco
domande di Stefania Galegati
fino al 11 Febbraio 2023
Scalene:
In geometria, di triangolo avente tutti i lati disuguali, o di trapezio non isoscele.
In anatomia: muscoli scaleni (anteriore, medio e posteriore), muscoli profondi della regione laterale
del collo che, a seconda delle condizioni, innalzano le coste o inclinano da un lato la colonna
cervicale o la irrigidiscono.
Un triangolo fatto con le dita, unendo le punte degli indici e opponendo quella del pollice. In mezzo il vuoto.
Tre linee diverse unite dalla pratica della pittura.
SG_ Ci racconti cose e poi ci neghi continuamente il racconto. Cosa accade in quella negazione, o in quel vuoto o in quel nascondere?
CC_ Quel vuoto [o quel negare o quel nascondere] è una forma di possibilità. Uno spazio che va oltre la contingenza e in cui alberga la memoria del mondo, i suoi desideri, le emozioni, le percezioni che talvolta non lasciano segni visibili nell’esperienza ma la guidano dal profondo. È un tessuto connettivo che si muove complesso e organico sotto ciò che percepiamo nel concreto, una trama sotterranea che ci riporta alla nostra indeterminatezza ontologica, irraggiungibile con gli occhi ma intuibile attraverso il cuore. Quel vuoto [o quel negare o quel nascondere] è un invito a scavare a mani nude oltre la superficie delle cose.
SG_ C’è qualcosa che ti spaventa mentre disegni? O in ogni caso mi parli della tua necessità di disegnare, se è una necessità come sembra, un allungamento del tuo corpo?
MF_ Non si tratta di paura, piuttosto di una ricerca aperta in cui spesso si aprono traiettorie imprevedibili ed incerte di cui non ho mai totale controllo. Quando lavoro assecondo un ritmo tattile in cui improvvisazione, fascinazione e desiderio della linea confluiscono in un’unica azione. Del corpo, attraverso il disegno, non cerco l’aspetto puramente anatomico, ciò che mi interessa è la sua struttura volumetrica, le pose che può assumere e da questi gli atteggiamenti, i caratteri e i significati che può esprimere. Questo si traduce in tratti e volumetrie sovrapposte che raccontano la parte emotiva con cui osservo questi corpi. Una serie di segni intrecciati, di ingranaggi che volte si incastrano e a volte no, che inizialmente inseguo ma che poi riesco dirigere creando, nel puro piacere estetico, volumi e corpi che sento miei e che rimandano a ciò che ho visto o pensato.
SG_Il tuo modo tutto apparente di trattare male i tuoi lavori, di realizzare sempre tutto su carta leggera, scatole, tessuti casalinghi; e anche il fatto di essere sempre più aerea, utilizzando giochi, relazioni, domande. Sono cause o conseguenze?
AT_È causa, perché quando metto qualcosa al mondo, desidero che sia vicino in termini affettivi a chi lo guarda. Non voglio suscitare distanza, non si tratta di oggetti preziosi che stanno in un altrove, ma sono oggetti sottoposti all’affetto, quindi all’usura e al tempo. Vivono in continuità col mondo. Non tratto il mio lavoro in modo diverso da un qualsiasi altro oggetto della casa e non mi aspetto che lз altrз lo facciano. Averne cura significa essere coscientə che potrebbe rompersi, rovinarsi, cambiare.
Ma è anche una conseguenza, perché questo desiderio di avvicinare si riflette nel mio modo di lavorare. Per mettere un oggetto al mondo non guardo lontano, guardo vicino, guardo nel mio ombelico. Una camicia da notte è molto più vicina di una tela di juta, una domanda è ciò che più consente di avvicinarsi, un pezzo di carta strappato è sempre a portata di mano, non si può dire lo stesso di un cartoncino in puro cotone.
Desidero evocare il familiare, accorciare le distanze tra interno ed esterno, tra microscopico e macroscopico, tra l’altrə e me, andare lontanissimo stando immobile in ciò che c’è.
Quindi, per risponderti veramente, tutto questo mio modo di fare è conseguenza dell’essere stata una bambina magnetica che voleva che il mondo le si avvicinasse. È diventato causa quando ho iniziato a muovermi anch’io.