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PISCINE D’INVENZIONE

PISCINE D’INVENZIONE
Adriano La Licata

a cura di Agata Polizzi e Claudio Gulli

Piscine d’invenzione è la prima personale di Adriano La Licata (1989) alla galleria di Francesco Pantaleone. Il titolo di
questo progetto rievoca le Carceri d’invenzione di Piranesi, ma nella sua genesi entra in gioco un riferimento a un
libro di Valentina Tanni, Exit Reality (Nero editions, 2023), che abbiamo scoperto grazie ad Adriano.
Qui l’esplorazione delle nuove possibilità creative offerte dal digitale si confronta con la tendenza sempre più spiccata
nei nostri anni a sfuggire dalla realtà, o a definirne una nuova – e siamo già dentro l’opera di Adriano.
Per noi questo si incrocia subito con altre letture – le Parole nel vuoto di Adolf Loos – o con le interferenze
casuali, generose e intangibili che il vivere nel cuore della Vucciria comporta. È lì che si trova lo studio dell’artista –
luogo magico per antonomasia – che qui è rappresentato nella prima opera della mostra. Quest’immagine aurorale, che
precede quasi il processo creativo, è un passepartout: una foto descrive come si presentava l’ambiente prima – prima
del restauro, prima del passaggio in questo mondo, prima che una rigenerazione compia il miracolo dell’esistenza di
uno spazio di intervento e di libertà.
C’è una sorta di “spinta all’evasione” originata quasi forzatamente da una situazione contemporanea di punti di
osservazione molteplici, dettagli sottratti dalla realtà e altri che provengono dalla realtà virtuale: schermi,
distorsioni, glitches, tutti tracce ed elementi che definiscono l’immaginario in cui opera l’artista. In un’intervista di Mario
Bronzino, Adriano ha dichiarato: “gli artisti che mi ispirano maggiormente sono quelli con cui condivido il percorso
artistico qui a Palermo. Sono le relazioni umane che si sviluppano nel contesto artistico che alimentano la mia creatività”.
Questo senso di comunità, fatto di connessioni e scambi quotidiani, è forse salvifico per una generazione, quella di chi è
nato negli anni Ottanta, che sta emergendo solo ora e che ha potuto osservare il processo digitale nel suo farsi e nel suo
disfarsi.
Per Adriano questo movimento può generare errori, e proprio lì bisogna strabuzzare gli occhi. Imparare a guardare cosa
succede è l’indicazione più lampante che ci propone l’artista. Ma c’è anche una postura salda, una definizione di identità
che porta Adriano a restare essenzialmente integro. Lui tira dritto con la sua ricerca che è fatta di memorie, di dissezioni,
di spazi sovrapposti, di immagini che vogliono confondere per rivelare una verità, spesso nuova, vitale ed esplosiva.
È questa la sua piscina d’invenzione. Un luogo in cui tuffarsi ma lievemente spaventoso, forse qualcuno nuota con noi,
oppure no. Eppure Adriano ha lavorato sodo per guadagnarsi questo spiraglio di libertà – lo diciamo sottovoce,
senza nessun trionfalismo. Infatti lui è sempre lì, caduto di fianco, ma rimane disteso e ci guarda. Molte delle sue opere
nascondono, più o meno palesemente il suo sguardo, ma l’esporsi non è mai autoreferenziale, al contrario genera
complicità, dubbi, esorta a rimanere vigili. Di chi sono questi occhi? Noi abbiamo varcato la soglia dello studio, quel
limite assai significativo per chi cerca di guardare criticamente un artista, e poi abbiamo provato insieme a lui a costruire
un teatro, quando ci siamo trasferiti in galleria.
Era quindi necessario costruire altre soglie immaginarie, con un’ossatura che vorremmo rimanesse umile e con un
sotteso potente. Questi congegni sono artefatti appositamente densi, perché devono funzionare come valichi di
attraversamento fra un mondo e un altro. Che ci sia la carta millimetrata, il cerotto, la saldatura della cornice a giorno, il
vetro, l’elastico, il frigo, il materiale di risulta, grezzo o “sporco”, tutto avvalora un’autenticità formale e concettuale che
non si nasconde dietro le convenzioni, dietro le increspature della perfezione. Ora siamo dentro il suo spazio, distinto da
quello scientifico-tecnologico, al quale si vorrebbe che fossimo forzatamente ridotti tutti. L’azione di fare-spazio si
compone con fiduciosa incertezza, in cui il guardare non mette fretta e lascia liberi di pensare, abolendo ogni regola
precisa, se non quella della curiosità e della conoscenza.