Il senso della fedeltà
di Agata Polizzi
Volendo fare una dimostrazione di equivalenza – secondo l’intenzione di Ernst H. Gombrich (Art and illusion, New York/Londra 1960) – per considerare quanto le immagini prodotte dall’arte possano essere convincenti anche senza essere effettivamente aderenti alla realtà rappresentata, potremmo certamente affermare nel caso delle opere di Per Barclay che la fisionomia dell’illusione è altrettanto vera quanto quella della realtà stessa.
Il lavoro di Per Barclay si muove per di più su due strutture percettive entrambe connotate da una consistenza estetica elevatissima. Non c’è dissonanza tra il soggetto e la sua rappresentazione, perché esiste tra loro una perfetta continuità, simile ad una eco.
Nella camera d’olio realizzata per la Cavallerizza di Palazzo Mazzarino a Palermo, l’artista, ancora una volta, permette che sia la forza dinamica dello spazio a connotare, replicandola, la percezione della realtà, laddove il superamento dei confini ottici diventa azione generativa e l’atto del “mostrare” ha in sé un enorme potere creativo, capace appunto di rendere vera persino un’illusione.
Sia nell’installazione della grande vasca che nella successiva restituzione fotografica, vere sono dunque le colonne, veri sono le volte e gli archi, veri sono tutti gli elementi architettonici che, pur replicati nel riflesso vitreo, offrono la rappresentazione fedele di se stessi.
Nulla si contrappone tra realtà e rappresentazione, la scena originaria è sempre mantenuta, sia il contenuto che la forma sono intatti, verificati, nulla di loro si è perso.
Un profondo “senso della fedeltà” caratterizza il lavoro di Per Barclay, perché la sua visione propone la medesima esperienza della realtà rappresentata, la luce è la stessa al variare delle ore, così come lo sono le dimensioni, la distribuzione e perfino la sostanza.
Lo sconfinamento oltre il limite del visibile mediante il riflesso, non intacca l’aderenza al vero, semplicemente la sublima.
In un’estrema eleganza di pensiero che è intima necessità nel lavoro di Barclay, si esplicita l’amore per la bellezza che induce lo spettatore a perdersi nella contemplazione di un contesto insieme scenografico e onirico, in cui ogni sensazione visiva può essere una scoperta, un’intuizione, un’associazione, un’ipotesi possibile della realtà.
Lo spettatore impara a reagire in maniera soggettiva dinanzi alla scena, l’opera diviene generativa, finisce per disperdere una miriade d’indizi capaci di descrivere lo spazio con una consapevolezza differente, forse persino migliore ad ogni sguardo, senza dubbio libera da ogni condizionamento.
Un’attenta osservazione della scena invita a immaginare il vissuto dei luoghi narrati da Barclay, è talora possibile anche ripensare a personali esperienze, immedesimarsi nello spazio quasi fosse familiare, oppure persino vedere le persone che hanno animato i luoghi, le loro storie, è forse possibile anche sentire, come in questo caso, l’odore pungente o il rumore fiero del nitrito dei cavalli appena rientrati a Palazzo, intravedere quello che doveva essere lo spirito di una Palermo oramai lontana, forse perduta, eppure ancora così presente.
Soffermarsi sulla scena è ogni volta condividere lo sguardo dell’artista, è penetrare la sua stessa volontà e ampliarla, informandola con una nuova e vitale possibilità narrativa.
L’intensità del linguaggio di Per Barclay, esiste al di là della estrema varietà dei contesti paesaggistici, ambientali o architettonici sui quali egli sceglie di intervenire con il suo lavoro, consiste in quella che io ho sempre sentito essere una magia, e cioè la capacità di trasformare, costruire una verità che respinge la banalità, sospende il giudizio, moltiplica l’immaginazione, sovverte le certezze, riscrive un concetto di significato, che è esso stesso una meravigliosa realtà.