Loredana Longo
PIEDEDIPORCO
con un testo di Irene Biolchini
dal 22 Novembre al 3 Febbraio 2018
“ La forza purificante della violenza non è alla luce del giorno per gli uomini”
Walter Benjamin, Per la critica della violenza, 1921
Il lavoro di Loredana Longo si fonda, da circa un ventennio, sull’estetica della violenza. Eppure la sua rappresentazione non è mai letterale, né didascalica e attraversa media e linguaggi con una grande libertà. Perfomance, video, installazione, tappeti, arazzi, scultura convivono in una riflessione sulle macerie, sui resti, su ciò che la violenza lascia nelle vite di tutti noi in una rappresentazione che è sempre opulenta (dagli interni dei ricchi salotti borghesi delle explosion ai preziosi tappeti persiani dei carpets) senza tuttavia essere mai barocca. Nel solco di questa ricerca, in cui convivono ricchezza, pulizia formale e macerie, si inserisce la recente serie piedediporco. I mattoni, dorati a terzo fuoco, convivono con la brutalità del laterizio. La fascinazione di Loredana Longo per la ceramica non passa attraverso una manipolazione del materiale nei suoi elementi arcaici e fangosi, ma per una autentica comprensione delle sue potenzialità plastiche.
Nei lavori in mostra è evidente come l’artista abbia deciso di lavorare sulle possibilità della ceramica e in particolare sulla capacità di fissare eternamente la fragilità della materia viscosa. Sia nel caso dei mattoni dorati, che dell’esercito di mani che guarda lo spettatore dalla parete, infatti, l’intervento avviene quando la materia è ancora cruda, carica d’acqua: la violenza che ne trasforma i connotati (sia nelle creste del mattone che nelle mani sfrangiate) è fissata eternamente mediante la cottura. Una violenza che diventa ancora più freudianamente perturbante nel suo essere associata con elementi familiari, quotidiani.
Ed è in questa attenzione per il quotidiano, per l’utensile (le mani sono “infilzate” su bastoni di zappe nel lavoro Fist) che Loredana Longo riesce a tornare all’origine del materiale, al suo primo uso. Sappiamo che l’argilla è infatti nata per creare piccoli oggetti domestici, per contenere cibi, per fare da legante nella costruzione delle case e, successivamente –proprio mediante laterizio- per edificare. Il muro che sbarra l’ingresso della galleria riparte da quella storia che non è però raccontata senza alcuna nostalgia. Al contrario è proprio mediante il piedediporco, monumentale sulla sommità, che la Storia di violenza civilizzatrice ritorna forte ed evidente. Vi è in quel mattone dorato tutta la forza della critica ad una società civile, in particolare a quella italiana, fondata ‘sul mattone’. Ed ecco dunque che il piedediporco diventa pietra d’angolo, fondamento di un vivere che è corrotto dalla sua violenza, dalla speculazione.
Nei giorni in cui l’artista realizzava questi pezzi (ed assieme discutevamo su come allestire i detriti che campeggiano nella seconda sala) una comunità terremotata si è recata a Roma per lanciare a terra, davanti alle sedi di governo, le macerie delle proprie case distrutte. Improvvisamente il messaggio di Loredana Longo – in nessun modo connesso a quella vicenda specifica– diventava messaggio politico.
Se la violenza infatti è la via, anche estetica, attraverso cui l’artista costruisce le proprie opere (si pensi all’elegantissimo tirapugni-gioiello in mostra), il messaggio è ineluttabilmente politico. Il mattone, la brutalità della speculazione economica, trova il suo controcanto in nelle ‘zappe’ a parete, primigenia arma del delitto di Caino su Abele. Le mani, che serbano nelle loro lacerazioni la violenza dell’esplosione, rappresentano l’ambivalente coincidenza tra vittima e carnefice. Le loro cromie, un color carne alternato ad un grigio canna di fucile opaco, richiamano la pelle e la polvere esplosiva che le ha fatte saltare. Il suono esteso e dilatato dell’esplosione accoglie lo spettatore ed accompagna i video –montati al rallentatore – che dominano la seconda stanza, dialogando con le macerie.
Polvere da sparo, oggetti contundenti, tirapugni: un armamentario per capire il nostro presente. Così come la rappresentazione dei calcinacci che popolano la seconda sala non è una cronaca, ma una riflessione su di un sentire, allo stesso modo anche le esplosioni delle mani ci ricordano detonazioni di corpi che – tristemente – popolano la nostra quotidianità. La libertà della creazione artistica è la sola risposta, l’unico spazio all’interno del quale poter agire, senza proporre soluzioni, ma permettendo a chi osserva di riflettere su ciò che accade con nuovi occhi. Perché le esplosioni non sono solo quelle dei kamikaze, perché Capaci vive nelle nostre memorie, ma anche nel nostro presente. A tre settimane dalla brutale esplosione dell’auto di una giornalista maltese, donna libera che attraverso le sue attività di inchiesta denunciava la corruzione e speculazione del proprio paese, un’altra donna, libera nella pratica e mai soggetta al medium, ci accompagna in un percorso di violenza. La stessa violenza che, mai definibile, domina la nostra vita in tutti i suoi rapporti.